Riceviamo, approviamo e pubblichiamo:

Grazie a Emilia De Rienzo per questo necessario richiamo a riflettere sulla competizione che spesso, ormai anche nella scuola, ha preso il sopravvento sulla cooperazione.

Nessuno sul podio

Nel mondo in cui viviamo sembra diventato un imperativo categorico insegnare ai ragazzi a mettersi in competizione tra di loro piuttosto che a cooperare, a costruire nella classe una rete che permetta lo scambio non solo umano, ma anche di competenze.

I ragazzi, di fatto, fuori e dentro alla scuola vengono spesso spinti a dare il massimo nel confrontarsi con gli altri.

Può succedere, dice la Vegetti Finzi (psicologa), che:

«per essere accettato, riconosciuto, amato, il bambino si sforza in tutti i modi di compiacere le aspettative dei genitori, dell’ambiente che lo circonda, dimostrandosi non solo bravo e intelligente, ma più bravo, più intelligente di altri». Questo atteggiamento, però, ci avverte la psicologa, ha un rischio perché «avviene a spese del nucleo più profondo e più vero della sua personalità, quello legato alle emozioni e alla creatività, che non ha modo di manifestarsi, soffocato com’è da questo imperativo categorico: devi essere intelligente, se vuoi essere accettato».

Si tratta spesso di un rischio «differito» che emerge più avanti «quando l’intelligenza non basta più per sentirsi vivi, amati e accettati. Quando si cerca se stessi. E non ci si trova: perché l’intelligenza, appunto, non è tutto nella vita di una persona» (…)

Non si pensa mai abbastanza a quanti sentimenti negativi porti con sé una stimolazione troppo forte ed indiscriminata alla competizione. I ragazzi diventano gelosi, invidiosi, rivali fra di loro; perdere spesso genera frustrazione; quando si è sempre vincitori ci si può sentire soli. Soprattutto i rapporti fra di loro si deteriorano.

L’affermazione esasperata di se stessi può spingere l’individuo a voler annullare l’altro, non importa chi esso sia, l’importante è che ci sia qualcuno su cui puoi affermare il proprio dominio, la propria superiorità. In questo modo si annulla l’altro, ma si annulla anche se stessi. La figura mitologica di Narciso che si innamora della sua immagine, che cerca di abbracciarsi e in questo modo muore annegato, è densa di significato anche nel mondo di oggi.

Sempre di più si vede la relazione dell’altro solo in modo utilitaristico, l’altro deve servire a raggiungere il mio scopo, è quasi come se fosse estensione del mio io. (…)

Imparare a diventare individui che sanno cooperare, mettersi a confronto, imparare a costruire scopi comuni mettono, invece, in campo aspetti fondamentali per il proprio vivere bene. Il ragazzo impara a sostenere l’altro quando ha bisogno e sa che qualcuno sosterrà lui quando sarà in difficoltà. In un clima solidale viene più volentieri a scuola, è più disponibile ad apprendere perché non è ossessionato dall’idea di sbagliare o di dover a tutti i costi eccellere.

Senza contare che in una logica del genere non c’è spazio per chi è più debole, non c’è spazio neanche per le nostre difficoltà: quelle che incontriamo nella vita di tutti i giorni.

Emilia De Rienzo