Oggi si è chiusa la vicenda giudiziaria di Luca: un anno di reclusione con sospensione della pena e 3 mesi di servizi sociali come volontario. Ha pagato per lo sbaglio commesso, secondo la legge vigente, scegliendo la via del patteggiamento. Non c’è nulla da aggiungere, né ritengo necessario scomodare Cesare Beccaria. Soltanto la vergogna per appartenere alla stessa specie di coloro che in un comunicato stampa (Consap) hanno parlato di “mercanti di morte”.

Le valutazioni circa la necessità, fuori da ogni approccio ipocrita, di avviare una seria riflessione intorno al necessario (dal mio punto di vista) processo di legalizzazione delle cosiddette droghe leggere, non può muovere dall’episodio che ci ha coinvolti, ma semmai dall’osservazione del sovraffollamento delle carceri italiane per condanne legate al piccolo spaccio, dalla diffusione dell’uso della marijuana fra i giovani e meno giovani, dall’inefficacia manifesta (basti leggere il rapporto della DIA a tale proposito) delle politiche repressive messe in campo in questi anni. Ma questa è un’altra discussione.

Devo confessare, invece, il fastidio che ho provato seguendo lo stucchevole dibattito a mezzo stampa intorno ai fatti accaduti al Virgilio e questo per un duplice motivo.

In primo luogo, perché si è messa in campo una mole di opinioni sganciate dai fatti oggettivi ed utili esclusivamente a determinare la sedimentazione di sentimenti oppositivi, spesso strumentalizzati e precipitati nella campagna elettorale in corso. Il tema al centro del dibattito non è se sia giusto o meno fare uso di droghe a scuola, trovandoci, in questo caso, nell’alveo della banalità e del mero buon senso. L’unico fatto che rileva è relativo all’ingresso della forza pubblica in un edificio scolastico e quanto questo elemento sia in sintonia con un approccio – che nella nostra città va prendendo sempre più corpo – che trova nel legalitarismo un po’ peloso la sua giustificazione ideologica. E’ talmente eclatante questo fatto che basterebbe fare un mero esame del rapporto costi/benefici per comprendere che si è sparato con un cannone su una mosca. Evidentemente il messaggio che si vuole trasmettere è di altro tipo ed attiene alla volontà di normalizzare il dibattito che si è sviluppato in questi anni nel Liceo Virgilio all’interno della componente studentesca e, allo stesso tempo, suggerire al corpo docente – sempre più affaticato e in crisi di autorevolezza – di adeguarsi senza ulteriori indugi ad una riforma della scuola che lo umilia ulteriormente e che individua nel dirigente scolastico il perno del nuovo modello educativo. Anche in questo senso, credo, debba essere letta la scesa in campo della ministra Giannini. Per questi motivi sarebbe stato auspicabile che il corpo docente e le sue rappresentanze sindacali si fossero espressi non sulle banalità, bensì sul rischio vero di una torsione autoritaria della quale l’episodio in discussione rappresenta esclusivamente un epifenomeno.

In secondo luogo, perché la sovraesposizione del Liceo Virgilio attiene alla sua stessa composizione di classe e questo rende ancora più odiosa tutta la vicenda. Un’affermazione forte, ma credo assai vicina alla realtà. Quanto sarebbe interessante se la stampa nazionale e locale andasse a visitare le scuole romane, magari cominciando da quelle delle periferie e ci raccontasse il loro stato di salute, le condizioni di insicurezza in cui versano (già, perché anche l’applicazione della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro è indicatore di legalità), se c’è ancora amianto che deve essere rimosso, se le strumentazioni sono adeguate, se le condizioni in cui studiano i nostri ragazzi e operano i docenti e gli altri lavoratori della scuola sono soddisfacenti. E compagnia cantando. Ma tutto questo non fa notizia e in quelle scuole non troveremmo cognomi conosciuti. Mentre i problemi della scuola e il disagio esistenziale degli studenti di oggi meriterebbero ben altra attenzione, da parte di tutti noi.

Quanto alla dirigente scolastica del Liceo Virgilio, credo si sia detto troppo, da parte dei suoi detrattori e dei suoi difensori ad oltranza. Molto più semplicemente, ritengo si tratti di uno dei tanti casi in cui, un po’ furbescamente, un dirigente pubblico abbia utilizzato il proprio ruolo per trarne un beneficio professionale, scegliendo oculatamente le alleanze e gli umori primordiali sui quali far leva. Da questo ne ha tratto certamente un vantaggio immediato, senza preoccuparsi del disastro educativo, umano e relazionale che ha determinato. Non credo si tratti di una persona cattiva, ma semplicemente inadeguata al ruolo che è stata richiamata a ricoprire dallo stato.

Quanto a Luca, mio figlio, credo debba intraprendere un percorso lungo, di riflessione, partendo dal fallimento del percorso educativo avviato e del quale siamo tutti quanti un po’ responsabili. La scelta di abbandonare il Liceo Virgilio per una scuola privata è la ferita per me più dolorosa, perché testimonia della nostra incapacità a far intendere il percorso educativo come centrale nella formazione di un cittadino consapevole. La retta della scuola che ha scelto la pagherà personalmente, lavorando la sera, probabilmente al nero (ed anche questo ci dovrebbe far riflettere sul principio di legalità). Ma non è questo il punto. E’ che tanti come lui, quest’anno, hanno abbandonato il Liceo Virgilio. Quelli più motivati, più forti, più strutturati probabilmente rimarranno. Ma la missione educativa della scuola dovrebbe rispondere non soltanto ai primi, ma anche – e forse soprattutto – agli ultimi.

Fra poco arriverà l’estate, molti supereranno l’esame di maturità e cominceranno a pensare al futuro, all’università, al lavoro che non c’è. Altri ancora riprenderanno a settembre un nuovo anno. Tutta questa vicenda sarà presto dimenticata e con i giornali che tanto hanno raccontato in questi giorni ci si potrà incartare il pesce (sono certo che Pintor mi perdonerà questo abuso). Di quelli che sono rimasti stritolati dal meccanismo non ci ricorderemo più, ma questo – per dirla con Bauman – sono danni collaterali. Per fortuna parliamo di giovani, che non recano il nostro rancore e i nostri rimpianti. E per loro la vita si apre solo ora.

Roma, 22 aprile 2016

Roberto Giordano

Immagine Helena Almeida, Inhabited Painting, 1975, Acrylic on photograph, 46 x 50 cm, Museum of Contemporary Art, Porto