Pubblichiamo due articoli dalla recente discussione intorno all’apprendimento partita da interpretazioni differenti delle idee di Don Milani.                  Siamo convinti, infatti, della necessità di riflettere sui criteri di base su cui fondare la scuola al fine di rendere chiari i reali obiettivi finali di alcune convinzioni e di alcuni provvedimenti.

Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2017

Uscire dal donmilanismo

 

Le Paginette di questo mese mi sa che saranno un’unica Pagina. Ancora sulla scuola. Bene o male, che io lo voglia o no, la scuola ancora occupa i miei pensieri, sollecitati ora da due dibattiti che il «Domenicale» ospita e che potrebbero sembrare lontani tra di loro, ma a me appaiono sorprendentemente molto vicini.
Il primo riguarda la lingua italiana, ovvero la scarsa conoscenza e capacità linguistica – ortografica e grammaticale – che sembra contraddistinguere i nostri giovani. Così denuncia la «lettera-appello dei 600», firmata da professori della Crusca e non, linguisti, insegnanti e scrittori (tra cui la sottoscritta). Mi sono stupita due volte: la prima, dell’attenzione che la lettera ha riscosso. Finalmente! È una battaglia che, personalmente, conduco da una quindicina d’anni almeno (non da sola, per fortuna: basti pensare a Segmenti e bastoncini, il formidabile libro di Lucio Russo del 1998!) e che si è sempre dissolta nelle nebbie. Ma si sa, dipende dal momento: una voce può cadere nel momento sbagliato. Evidentemente questo è giusto, e me ne rallegro.
Credo che tutti dovrebbero firmare un appello del genere. Tutti i cittadini, dico, italiani e stranieri, dovrebbero insorgere, protestare, denunciare lo stato d’ignoranza e decadimento non solo linguistico ma culturale in cui versiamo. Dovrebbero insorgere anche persone che non appartengono all’ambiente dei linguisti, accademici e insegnanti di scuola: indistintamente, tutti coloro che hanno a cuore i libri, primi fra tutti gli scrittori e i lettori, gente cui mi pare debba importare moltissimo che si continui a scrivere bene e a capire quel è scritto. E naturalmente, primi fra i primi, i professionisti dei libri: gli editor, per esempio, coloro che controllano ogni frase, ogni parola, ogni virgola, e fanno sì che un libro esca senza errori, né ortografici né grammaticali né logici, neanche uno!
La seconda cosa che mi ha destato stupore è che non tutti siano d’accordo, cioè che per alcuni non sia affatto vero che i giovani non sanno parlare e scrivere in italiano. Secondo costoro sarebbe solo l’opinione dei soliti pessimisti-catastrofisti-nostalgici-reazionari. Quindi, dipende… C’è chi denuncia il decadimento e c’è chi lo nega. Alla fine si riduce sempre tutto a una questione di ottimismo o pessimismo.
Mi son fatta l’idea che dipenda dalle solite questioni ideologiche. Sembra che il pessimismo sia di destra, e l’ottimismo di sinistra… (ci vorrebbe Giorgio Gaber!). Sembra, insomma, che per chi di noi si professa pro-gressista sia molto arduo ammettere, seppur in un ambito parziale e delimitato, una leggera forma di re-gresso. Detto mirabilmente da Jean-Claude Michéa: «Un militante di sinistra è sostanzialmente riconoscibile, ai nostri giorni, dal fatto che gli è psicologicamente impossibile ammettere che, in qualunque campo, le cose potessero andare meglio prima».
Ma non dovrebbe essere, la decadenza linguistica, un fenomeno oggettivo, assodato e incontrovertibile, se in una classe di liceo i due terzi dei ragazzi prendono l’insufficienza in dettato ortografico? E non dovrebbe oggettivamente far riflettere il fatto che ci si sia ridotti a far dettato al liceo e finanche all’università, pessimisti o ottimisti che si sia? O forse si pensa che il linguaggio verbale sia solo uno dei possibili linguaggi, e come tale sia soggetto al tempo, e sia oggi in via di estinzione in attesa che nascano altri, e ben più “nuovi”, sistemi di comunicazione ed espressione?
In quanto alla questione se si debba far grammatica alle elementari, o medie, o superiori o università, non so, mi sembra talmente lapalissiano che sia meglio cominciare a sei anni che a diciotto… Aggiungo solo, per quanto vale, che dalla mia esperienza diretta di insegnante di liceo ho notato quanto sia difficile estirpare errori ortografici in ragazzi che hanno ormai quindici anni, nonché farli entrare per la prima volta a quell’età nel tempio logico-consequenziale dell’analisi del periodo, qualora non abbiamo avuto il bene di frequentarlo prima, detto tempio.
Ma, come ho ripetuto nei miei libri fino alla nausea, penso che la mia generazione espressamente non abbia voluto insegnare grammatica, né far veramente leggere i classici a scuola. E questo per questioni ideologiche. Non far grammatica è di sinistra. Il che implicherebbe che farla (e difenderla) è di destra? O esiste una grammatica democratica e una no? In effetti, ora ricordo, esiste un documento di «pedagogia linguistica democratica» del 1975, in cui si dice: «Buona parte degli errori di lettura e ortografia dipendono da scarsa maturazione della capacità di coordinamento spaziale, essi dunque vanno curati non insegnando norme ortografiche direttamente, ma insegnando a ballare, ad apparecchiare ordinatamente la tavola, ad allacciarsi le scarpe». Non vorrei sembrare banalmente deduttiva, ma mi pare che da qui emerga che l’ortografia non è democratica e, anche, che forse il nuovo metodo (indiretto e democratico) non ha funzionato benissimo: i giovani oggi sanno forse ballare, ma qualche problemino ortografico pare ce l’abbiano. A margine: da tutto ciò si spiegherebbe anche perché, in un altro grande dibattito in corso, il liceo classico sia sempre bollato di élitarismo (ovvero scarsa democraticità): in effetti, difficile fare latino e greco senza grammatica e analisi logica.
E qui veniamo al secondo, e più recente dibattito: quello su don Milani. Comincia Lorenzo Tomasin (il 26 febbraio, su questo giornale), schierandosi dalla parte della professoressa della famosa Lettera. Continuano Carlo Ossola e Franco Lorenzoni (il 5 marzo), difendendo «una scuola democratica».
Nessuno mette in dubbio l’altissimo valore dell’operato di don Milani, e di tutti coloro che insieme a lui si batterono per aprire la scuola ai ceti meno avvantaggiati. Ed è giustissimo, come fa Ossola, collocare storicamente quell’operato, sacrosanto negli anni ’60, quando l’Italia si avviava a un processo di modificazione sociale enorme. Se poi la scuola, proprio a partire da quelle idee, è andata storta, don Milani non c’entra. «Non si possono imputare ai Padri le colpe dei figli», dice Ossola. Sono d’accordo. (In un mio libro del 2011, dedicai un intero capitolo a distinguere tra don Milani e il “donmilanismo”!). Ma i libri sono libri, e come tali vanno giudicati, anche al di là del loro tempo, visto che i libri travalicano il tempo. Quindi dovremmo tutti con pazienza rileggere oggi Lettera a una professoressa, soprattutto per questo sorprendente fenomeno: che don Milani rimane a tutt’oggi, dopo cinquant’anni, l’unica forte icona (molto sacralizzata, invero!) cui continua a ispirarsi la nostra scuola (si vedano i ministri dell’Istruzione che lo citano sempre, a ogni discorso d’insediamento, a qualsiasi parte politica appartengano. Cosa su cui dovremmo interrogarci… Cos’è, un omaggio dovuto al nostro cattolicesimo?). Dovremmo rileggere oggi quel libro, distinguendo, in don Milani, l’operato (encomiabile almeno nelle intenzioni) dall’opera (discutibile, a tratti aberrante). I libri hanno una loro vita, separata dalla vita dei loro autori. Sarebbe il colmo che giudicassimo Guerra e pace in base a come Tolstoj trattava la moglie!
Anche Tomasin, nel suo articolo davvero molto coraggioso (chi tocca don Milani muore!), parte di qui, dal fatto che ha riletto ora quel libro, e dallo sconcertato stupore che ha provato. Stupore che s’incentra su due punti: che la scuola prefigurata da don Milani “è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano”, e che quel suo librino trasudi odio di classe, risentimento, ovvero il rancore dei poveri verso i ricchi, di Gianni figlio del contadino verso Pierino figlio del dottore.
Condivido lo stesso stupore, e per le stesse ragioni. In effetti, la nostra scuola oggi è esattamente quella che voleva don Milani cinquant’anni fa. Infatti abbiamo emarginato sempre più la grammatica e la letteratura (dei classici, in primis) sostituendola con attività di vario intrattenimento (v. i progetti del POF). Andiamo a rileggere i passi in cui s’invita la professoressa a non fare grammatica perché la lingua è appannaggio dell’élite, e a non fare Foscolo o l’Iliade del Monti perché la difficoltà di quei testi umilia i “poveri”. Ad esempio: «Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri (…). I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro (…). Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua, l’ha detto la Costituzione. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione». Bene. È da cinquant’anni che facciamo a scuola più Costituzione che grammatica; oggi in particolare facciamo Educazione alla cittadinanza, non certo Educazione alla grammatica. E andiamo al finale del libro, dove è espresso il sogno della nuova scuola, democratica: «A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie».
E noi questa scuola abbiamo fatto e facciamo: ha vinto l’esperienza (il saper fare, si dice così?), non certo il sapere. Non dovremmo quindi stupirci se ora i nostri ragazzi non sono capaci di scrivere, non sanno dov’è il Caucaso, non studiano più latino e hanno un lessico ristrettissimo. Ma sia chiaro, il colpevole non è don Milani, siamo noi, è la pervicacia sconsiderata con cui per cinquant’anni abbiamo continuato quella sua strada, forse giustissima allora, ma oggi? L’operazione di don Milani allora aveva un senso, perché il problema era di includere i figli dei contadini e fare una scuola per tutti. Ma oggi il mondo è cambiato… Non abbiamo a scuola i figli dei contadini, e se li abbiamo, non versano nello stato di cinquant’anni fa. Certo, abbiamo ancora, e sempre più, i deboli da proteggere: i ragazzi che arrivano dall’estero, che abitano in quartieri socialmente e culturalmente degradati. A questi dobbiamo pensare. Ma come? Che l’idea di don Milani avesse allora un senso, non implica che quel senso non fosse sbagliato già allora, e che lo sia probabilmente oggi più che mai. Voglio dire che si potrebbe avere un’idea esattamente contraria, per raggiungere lo stesso nobile fine: cioè, proprio per aiutare i figli dei contadini (tradotto i ragazzi oggi più deboli), si potrebbe rendere più difficile, e non più facile, la scuola. Tradotto, dovremmo fare proprio l’Iliade del Monti (che, tra l’altro, piace moltissimo ai ragazzi!), e non approntare ridicole traduzioncine, semplici e prosastiche, col linguaggio più piatto possibile, perché gli attuali “figli dei contadini” non facciano fatica e siano inclusi! Inclusi in cosa, poi? In un percorso di studi fittizio e ingannevole, che li lascia impreparati ad affrontare gli studi più alti e le professioni più ambite? C’è una sottile punta di razzismo, direi, in questa idea che i ceti cosiddetti ceti subalterni non possano elevarsi, emanciparsi dalle loro origini e accostarsi alla cultura alta.
Ma niente, siamo fermi a cinquant’anni fa, non vedo spiragli. La vera domanda è questa: ma noi potremo mai far serenamente grammatica e letteratura senza la colpevole sensazione di non essere democratici? Arriveremo mai a pensare che proprio insegnare ai massimi livelli la nostra lingua, facendo leggere i testi più difficili del nostro patrimonio culturale, aiuterebbe i giovani (tutti i giovani!) ad avere gli strumenti per migliorare la loro sorte, di cittadini e lavoratori, ma prima di tutto di persone? Siamo destinati ancora per quanto a trascinarci appresso vecchi fantasmi e arrugginite catene?
Io credo che dovrebbe starci molto a cuore che i nostri ragazzi scrivano niente e non gnente, ce n’è e non cé né. E soprattutto, che sappiano capire quel che leggono, e costruire un discorso loro, dotato di senso e ben organizzato. Che sappiano cogliere i nessi logici, le sfumature e i significati più profondi di un testo, orale o scritto. Credo che dovrebbe stare a cuore a tutti questo, a pessimisti e ottimisti, gente di destra o di sinistra, cattolici e non. E credo che la strada sarebbe estremamente semplice e piana: se vogliamo che i giovani sappiano l’italiano, bisogna insegnare italiano a scuola, dal primo anno all’ultimo. Ma bisogna volerlo, volerlo veramente, tutti quanti. E decidere di farlo. Non risolveremo mai nulla, se non decideremo tutti quanti – come società, come Italia – che nella scuola sia bene tornare a insegnare a leggere, scrivere e parlare, a partire dalla prima elementare.
Ma noi vogliamo veramente che i giovani sappiano l’italiano? O una scuola dove si insegnino soltanto e umilmente le basi della nostra lingua, con rigore e serietà, ci sembra ancora una scuola troppo reazionaria, antiquata, banale, inutile, poco creativa, poco gratificante e… per niente democratica?

PAOLA MASTROCOLA

 

SUL PRESUNTO DONMILANISMO OVVERO PERCHÉ MASTROCOLA DOVREBBE STUDIARE DI PIÙ LA STORIA DELLA SCUOLA ITALIANA

minima&moralia pubblicato domenica, 26 marzo 2017 ·

di Vanessa Roghi

Vale la pena di prenderlo sul serio l’articolo uscito oggi sul Domenicale del «Sole 24 Ore», quello di Paola Mastrocola sul “donmilanismo”.

Vale la pena anche se la prima reazione sarebbe quella di liquidarlo con un post su facebook, ecco la solita storia, un altro articolo a favore dell’appello dei 600, la grammatica è di destra o di sinistra?, l’italiano non lo parla più nessuno, si stava meglio quando si stava peggio e via dicendo. Ma non si può. Perché in questo ennesimo articolo pubblicato dal Domenicale su quello che Mastrocola definisce “donmilanismo” si gioca in un certo senso il futuro della scuola pubblica, poiché è attraverso la costruzione di un discorso pubblico condiviso sulla scuola che si elaborano le ideologie, si pensano le leggi, si immaginano e si scrivono le riforme. Anche a partire dalla storia specifica della pubblica istruzione in questo paese e dal senso che oggi attribuiamo ad essa. L’invenzione di una tradizione democratica e di sinistra “contro la grammatica” di cui don Milani sarebbe stato l’ispiratore, Tullio De Mauro l’interprete e le maestre delle scuole elementari (intrise di un altro male gravissimo, il “rodarismo”) il braccio armato, è un’operazione culturale molto precisa che ha la sua genealogia e come tale va letta. Qui riassumerò alcuni passaggi.

Andiamo per ordine.

Non è la prima volta che la scrittrice attacca duramente don Milani, possiamo ricordare il suo libro Togliamo il disturbo (2011) dove scrive: «non credo che volesse davvero una scuola che non insegna nozioni. So che nelle sue classi si studiava eccome. Semplicemente, voleva una scuola che non escludesse dall’istruzione i ragazzi meno fortunati, quelli che per origini famigliari non possedevano gli strumenti per farcela. Come dargli torto? Giustissimo. Fu una grande scuola, la sua. Ciò nonostante, noi abbiamo costruito negli anni, grazie anche alle idee di don Milani, una scuola che non insegna più nozioni». Sic.

Oppure, antecedente, l’articolo su «La Stampa» del 2007 (anniversario, come quest’anno, della morte del priore e dell’uscita della Lettera a una professoressa) dal titolo eloquente: La sua utopia si è realizzata, purtroppo.

«Caro don Milani, rileggere oggi il suo libro, mi creda, è illuminante e anche un tantino inquietante: ci aiuta a capire che la scuola di oggi è esattamente la scuola che voleva lei quarant’anni fa. Ma ci chiediamo se forse non sia per questo che non funziona più tanto: perché nel frattempo sono passati quarant’anni».Perché, spiega? «Chiedeva parecchie cose, tra cui: di non interrogare sulle poesie di Foscolo perché Foscolo scrive parole difficili, come inaugurare che vuole dire augurare male: «C’è scritto nella nota. Ma è una bugia. L’ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri»; di non mettere più in programma l’Eneide, perché è scritto in una «lingua nata morta»; di non fare l’Iliade nella traduzione del Monti, perché «il Monti chi è? uno che ha qualcosa da dirci? uno che parla la lingua che occorre a noi?». Gianni, il figlio del contadino, è andato via da scuola a 15 anni e lavora in officina, «non ha bisogno di sapere se è stato Giove a partorire Minerva o viceversa. Nel programma d’italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici». Era il 1967. Quarant’anni dopo possiamo dirle che abbiamo esaudito quasi completamente le richieste di quel suo ragazzino, e questa notizia di sicuro le farà piacere; a parte il contratto dei metalmeccanici che non so se abbiamo messo davvero nei programmi (personalmente spero di no), per il resto sono sicura: studiamo abbastanza la Costituzione e pochissimo la grammatica; siamo completamente indifferenti alle acca del verbo avere; non bocciamo quasi nessuno; il Foscolo lo facciamo poco, giusto al triennio dei licei; e il Monti nessuno più sa chi sia perché abbiamo approntato meravigliose versioni in prosa dell’Iliade, scritte in uno stupendo stile quotidiano corrente. Più o meno la lingua che usiamo per andare a comprare il pane. Il problema è che, così facendo, qui da noi nessuno sa più niente e nessuno ha più voglia di studiare. Nessuno, né i poveri né i ricchi». Dunque: don Milani voleva una scuola semplificata e senza grammatica. Da questa ideologia nasce il donmilanismo (non si capisce bene né dove né quando, si dà per scontato e basta, il donmilanismo esiste).

Ora cosa sarebbe il donmilanismo? una malattia infantile dalla quale sono affetti gli insegnanti “democratici” a partire più o meno dal 1967, o meglio, da qualche anno dopo, dall’uscita di quelle tesi linguistiche per l’educazione democratica di cui diabolico estensore è stato il comunista Tullio De Mauro al quale, è noto, dobbiamo l’imbarbarimento dei costumi italici, l’analfabetismo primario e di ritorno, e chissà quali altri mali.

Scrive oggi Mastrocola: «Abbiamo emarginato sempre più la grammatica e la letteratura (dei classici, in primis) sostituendola con attività di vario intrattenimento (v. i progetti del POF). Andiamo a rileggere i passi in cui s’invita la professoressa a non fare grammatica perché la lingua è appannaggio dell’élite, e a non fare Foscolo o l’Iliade del Monti perché la difficoltà di quei testi umilia i “poveri”. Ad esempio: «Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri (…). I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro (…). Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua, l’ha detto la Costituzione. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione». Bene. È da cinquant’anni che facciamo a scuola più Costituzione che grammatica; oggi in particolare facciamo Educazione alla cittadinanza, non certo Educazione alla grammatica». Sulla veridicità di questa osservazioni ripetute, come abbiamo visto, da anni senza alcuna sostanziale revisione, sono già intervenuti altri (non è vero che non studia grammatica a scuola per esempio, e che si studia la costituzione al suo posto).

Vorrei dunque soffermarmi su questo passaggio, che è quello nel quale si entra a gamba tesa nella storia, intesa come disciplina, la si usa in modo “pubbico”, e così facendo si costruisce un’ideologia rivolta alla nostra contemporaneità che parte da un assunto falso ma verosimile che, evidentemente, è il punto di incontro di tanti intellettuali di oggi, ovvero che don Milani volesse una scuola più semplice per i poveri.

«Che l’idea di don Milani avesse allora un senso, non implica che quel senso non fosse sbagliato già allora, e che lo sia probabilmente oggi più che mai. Voglio dire che si potrebbe avere un’idea esattamente contraria, per raggiungere lo stesso nobile fine: cioè, proprio per aiutare i figli dei contadini (tradotto i ragazzi oggi più deboli), si potrebbe rendere più difficile, e non più facile, la scuola. Tradotto, dovremmo fare proprio l’Iliade del Monti (che, tra l’altro, piace moltissimo ai ragazzi!), e non approntare ridicole traduzioncine, semplici e prosastiche, col linguaggio più piatto possibile, perché gli attuali “figli dei contadini” non facciano fatica e siano inclusi! Inclusi in cosa, poi? In un percorso di studi fittizio e ingannevole, che li lascia impreparati ad affrontare gli studi più alti e le professioni più ambite? C’è una sottile punta di razzismo, direi, in questa idea che i ceti cosiddetti ceti subalterni non possano elevarsi, emanciparsi dalle loro origini e accostarsi alla cultura alta».

Ovviamente don Milani non ha mai neanche per un momento pensato che la scuola andasse resa più facile, né che ai ragazzi poveri si dovessero precludere le strade che si aprivano ai figli dei ricchi. La sua idea del 1967 nasceva da venti anni di riflessione sull’istruzione in generale. Don Milani aveva iniziato a Calenzano, nel 1947, a riflettere sull’analfabetismo degli operai, l’aveva fatto a partire dalla sua esperienza, l’aveva raccontato nel suo primo libro, le Esperienze pastorali, dove per la prima volta aveva tematizzato il problema della lingua.

Don Lorenzo Milani, pronipote del filologo Comparetti, sapeva bene che le lingue sono una “quistione” storica, sapeva che nessuno è predestinato ad essere analfabeta, sapeva che sulla lingua si può e si deve lavorare. Aveva per questo aperto un doposcuola in parrocchia, poteva farlo per una legge dello Stato del 1949. Aveva invitato intellettuali a parlare di cose difficili ai ragazzi, perché sapeva bene che la complessità è formativa e che non ci sono cose “vere in città e false in campagna”.

Arrivato a Barbiana nel 1954 aveva visto qualcosa di ancora più triste e grave, la rassegnata miseria linguistica dei figli dei contadini. A loro aveva dato una scuola alternativa, non perché non credesse nell’istruzione, ma proprio perché sapeva che l’istruzione era l’unica arma che i poveri avevano per non farsi fregare da chi ne sapeva più di loro.

Voi forse non lo sapete o non lo ricordate ma negli anni Cinquanta la scuola media non era per tutti, bisognava fare un esame per essere ammessi, e molti preferivano non continuare. A Barbiana don Milani vide che il lavoro dei ragazzi nei campi, con le bestie era l’unico destino possibile, per questo li andava a prendere uno per volta a casa. Per questo iniziò a insegnare loro a leggere e scrivere.

Quando si iniziò a discutere di scuola media unica si infuriò venendo a sapere che in molti volevano abolire il latino perché troppo difficile per i poveri.

Il 22 marzo del 1956 il Ministro della Pubblica Istruzione, Paolo Rossi, presentò un progetto di riforma della scuola media, una media unica ma divisa in tre indirizzi differenziati: «è veramente indispensabile che i futuri studenti tecnici conoscano il latino? E’ meglio che quei giovani il latino non lo studino affatto … si renderebbe loro un pessimo servizio». In quella occasione don Milani scrisse a Ettore Bernabei, in quel momento direttore del Giornale del Mattino di Firenze: il ministro mi ricorda Maria Antonietta «Non auguro al ministro di far la fine che fece lei. Gli offro invece quindici giorni di ospitalità in casa mia. Se si saprà adattare per quei pochi giorni al lume a carburo e alla mezzina e a tante altre cosette, io lo terrò accanto a me mentre fo scuola ai miei giovani montanari e gli prometto di aprirgli gli occhi su un orizzonte immenso che non suppone. Il ministero andrà avanti benissimo anche senza di lui e al ritorno potrà gloriarsi d’esser finalmente degno d’una Repubblica fondata sul lavoro. Vedrai che dal quel giorno non concederà più interviste sull’abolizione del latino. C’è anzi il caso che bandisca un concorso per un testo di greco da adottarsi nelle quinte elementari. E per la riforma del programma dell’Avviamento Industriale penso che si rivolgerà a uno studioso di ebraico per non defraudare i poveri dell’incontro diretto col testo sacro. Dio lo voglia davvero. Per il bene dei poveri. Perché si facciano strada senza che scorra il sangue. E se anche il sangue dovesse scorrere un’altra volta, perché almeno non scorra invano per loro come è stato finora tutte le volte».

Dieci anni dopo la media unificata esisteva ma non funzionava. Non lo diceva solo il parroco di Barbiana. Le inchieste della Rai di quegli anni sono durissime in questo senso: fra il 1963 e il 1966 mettono in luce l’abbandono scolastico, l’inadempienza dello stato e dei genitori che ancora mandano i figli a lavorare a 11 anni. E’ colpa della Rai che ha puntato il dito contro la mancata attuazione della riforma se oggi i ragazzi non sanno leggere e scrivere?

E’ il 1969 quando esce l’inchiesta di Marzio Barbagli e Maurizio Dei Le vestali della classe media, dedicata alla formazione, alle aspirazioni, alle frustrazioni degli insegnanti italiani, soprattutto quelli delle medie inferiori. La ricerca è frutto di anni di lavoro, le conclusioni basate su uno studio assai preciso delle dinamiche occupazionali del mestiere di insegnante dopo la riforma delle scuole medie del 1962. Che la scuola degli anni Sessanta sia un luogo di forte esclusione sociale è un dato incontrovertibile, per tutti, tanto è vero che chi contesta la posizione di Barbagli non lo fa dicendo: ma no non è vero la scuola include, bensì dicendo: è giusto che sia così.

Ma, dicono Barbagli e Dei, il problema è un altro: «Uscendo dall’università con una formazione da studioso il laureato italiano non solo manca delle più elementari conoscenze necessarie all’esercizio della sua professione, non solo non sa insegnare, ma – entrando nella scuola media inferiore – non può non avere la netta impressione che quanto ha imparato fino ad allora sia sprecato».

Per questo la Lettera a una professoressa centra il bersaglio, per questo fa tanto discutere allora e tanto infuriare oggi. Perché al di là delle frasi roboanti, delle provocazioni, come è quella relativa al Monti tanto citata da Mastrocola, la scuola sperata in venti anni di lavoro con i poveri, nel 1967, non è arrivata, gli insegnanti non sono cambiati. La miseria è sempre lì.

Gli ostacoli per diventare cittadini non sono stati rimossi, la promessa della Costituzione appare vana. I figli dei poveri hanno il destino segnato. Ma non si può dire, né oggi nel 1967. Perché altrimenti si incita all’odio di classe, e non va bene. Eppure nessuno nel 1967 imputa alla Lettera un classismo negativo, anzi. Del resto il Sessantotto ancora non c’è stato, e nessuno omologa don Milani alle rivendicazioni degli studenti, al sei politico, all’antiautoritarismo accademico. E’, semmai, il sintomo di una frattura non risanabile. Che solo le riforme degli anni settanta, in qualche modo, ripareranno: lo statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia, la legge Basaglia, andranno ad accorciare le distanze fra ricchi e poveri fra deboli e forti e così, migliorando la società, miglioreranno anche la scuola, rendendo più uniformi le condizioni di partenza di tutti i bambini e le bambine che entrano a scuola (le classi differenziali vengono abolite nel 1977).

Eppure non c’è niente da fare, tutta questa storia, che è storia sociale, culturale, politica di questo paese, la storia della battaglia contro l’esclusione sociale e la ricerca “dei mezzi per combatterla” viene tradotta, da vent’anni a questa parte e da certa pubblicistica come incitazione all’“odio di classe”. Su questa traduzione si fonda una delle più longeve interpretazioni della Lettera a una professoressa. «Un’ esperienza didattica forse non proprio marginale, ma simile in definitiva a tantissime altre, si era così venuta arricchendo d’ un ingrediente rivoluzionario: l’odio di classe, che il movimento operaio italiano aveva ripudiato già nell’ Ottocento e che tornava a riaffacciarsi, dopo quasi un secolo, nella prosa elegante e un po’ nevrotica di un prete di origine borghese», Sebastiano Vassalli, 1992. «Ognuno nasce dove deve nascere, dove meglio si completa il suo disegno. Kafka lavorava in un ufficio di assicurazioni, e Einstein all’Ufficio Brevetti. Questo pensiero dovrebbe aiutarci a superare l’odio di classe, l’invidia sociale e tutti quei cattivi sentimenti che non ci fanno onore. E che hanno finito per intorbidare anche le acque della nostra scuola», Paola Mastrocola. «Ciò che impressiona oggi è il risentimento che anima quelle pagine, e che allora poteva essere inteso come riflesso dell’entusiasmo ribelle. Ma ormai appare solo come la manifestazione di una pervicace abitudine italiana a fare di odio e invidia la base di ogni ragionamento», Lorenzo Tomasin, 2017.

Forse allora bisogna ritornare a Tullio De Mauro e allargare la sua definizione di analfabetismo funzionale riferendola anche a chi non è in grado di leggere un testo del 1967 per quello che è, ovvero una fonte per la storia della cultura di questo paese: perché non si riesce a capire cosa voleva davvero dire don Milani? Perché lo si travisa così spesso lo si capisce così male? Perché non andare a studiare invece quando e come e chi lo ha trasformato in un santino, in un idolo polemico, in un mostro. Forse bisognerebbe studiare bene la storia per capire la Lettera a una professoressa e non leggerla in modo retrospettivo a partire dalla nostra contemporaneità.

Collocare storicamente un testo, coglierne i registri, gli intenti, il contesto, le esagerazioni e le esasperazioni non è facile è vero.

Molto più difficile che studiare la grammatica.

Ma si può fare.