Il 2 Febbraio 1882 nasceva a Dublino James Joyce. Il 2 Febbraio 1922 veniva pubblicato il suo libro più famoso, “Ulisse”. L’opera cominciò ad essere letta a puntate, nei primi anni ’20, sulla “Little Review” di New York fino a quando la pubblicazione non venne interrotta da un processo per oscenità . Il libro riuscì a vedere la luce grazie a Sylvia Beach della libreria parigina Shakespeare & Co. che lo fece stampare in mille copie presto esaurite. Comincia così la storia di un libro mitico, importante ma ritenuto di difficile lettura e complessità. Joyce però ha sempre definito il suo libro semplicemente “novel” che, come scrive Giorgio Melchiori: “prende le mosse dalla definizione di “novel” data nel settecento da Henry Fielding (l’autore di “Tom Jones”) : ‘poema eroicomico in prosa’ inteso a strutturare una rappresentazione minuziosamente realistica della vita contemporanea sul modello dell’epica classica, in modo da ironizzare allo stesso tempo sia l’anti-eroismo dell’esperienza quotidiana sia il magniloquente atteggiarsi dell’epica.” Questo lato comico, di divertimento, più volte ribadito dall’ autore, non deve essere assolutamente tralasciato nell’ accostarsi alla lettura, specie ad una prima lettura. In un periodo che va, lo vediamo nei provvedimenti degli ultimi periodi nelle scuole, verso una progressiva e voluta diminuzione del sapere e della consapevolezza, la conoscenza e la comprensione di quanto si è fatto in tutte le varie discipline, ed in particolar modo in quelle artistiche e letterarie, è fondamentale. L’Ulisse è, che piaccia o meno, un punto di svolta della letteratura: qui quel che conta non è più tanto il personaggio con i suoi accadimenti e la sua psicologia come nei romanzi del Romanticismo, ma “ l’avventura stessa che accade e vale come esperienza universale e simbolica”. Beckett dirà: “…la scrittura di Joyce non è un componimento su qualcosa, è quel qualcosa”. Così come, proprio in quel periodo, la pittura non cercherà più di ritrarre una realtà esterna ma sarà essa stessa, nell’opera che si realizza, una realtà. Sentiamo ancora l’autore: “La mia intenzione è di rendere il mito sub specie temporis nostri, non soltanto ma permettendo che ogni avventura (cioè ogni ora, ogni organo, ogni atto connessi e immedesimati nello schema somatico del tutto) condizionasse anzi creasse la propria tecnica.” E infatti ogni capitolo si riferisce a un episodio dell’Odissea e anche ad una parte del corpo umano ed ha una sua peculiare tecnica di scrittura. Tecniche che svariano dal famoso “stream of consciousness” ( cap XVIII “Penelope”, la carne, il letto) ad una serie di domande e risposte come in un catechismo ( cap. XVII “Itaca”, lo scheletro, la casa ). L’opera di Joyce rappresenta probabilmente, ancor più nel successivo “Finnegans Wake”, l’apice della scrittura ed è certamente anche una raffinatissima e profonda operazione culturale meglio apprezzabile con la conoscenza di quanto fatto dagli scrittori in precedenza. Ma, come già detto, il libro contiene anche una dose di gioco per cui non occorre avere un approccio troppo serio e, a questo proposito, potrebbe essere meglio cominciare dal IV capitolo (Calipso ) che, facilmente godibile, può stimolare la voglia di leggerlo tutto.
Immagini: Statua di Joyce a Trieste dove visse a lungo / La libreria Shakespeare & Co. a Parigi oggi anche caffè.